I Cranberries sono stati uno dei fenomeni musicali più interessanti e apprezzati della prima metà degli anni Novanta, uno dei pochi che ha saputo fare da contrappeso al grunge americano. Ma anche il primo gruppo rock irlandese a ricavarsi uno spazio in un orizzonte dominato in maniera incontrastata dagli U2.
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Un miracolo, quest'ultimo, reso possibile dalla voce inconfondibile di Dolores O'Riordan, divenuta fin da subito modello da emulare per moltissime cantanti. E tuttavia, passata quasi in un baleno da un minuscolo sobborgo di campagna ai riflettori di tutto il mondo e cresciuta in un'epoca precedente ai social network - dove tutti espongono tutto di sé per ventiquattro ore al giorno, come fossero le star del Truman Show - Dolores non si è mai completamente adattata a essere divenuta personaggio pubblico. "Vorrei poter cantare senza essere mai guardata", ha ripetuto in più occasioni. Ma la O'Riordan non è stata solo l'interprete, è stata anche l'autrice di tutti i testi dei Cranberries e di quelli della parentesi da solista. Liriche quasi sempre incentrate su di sé, nelle quali mostra in trasparenza e senza alcuna mediazione le proprie luci e ombre; e molto spesso la propria fragilità. La contraddizione tra questa intimità esposta e il disagio di avere migliaia di occhi estranei sempre puntati addosso è solo apparente e sembra anzi confermare per paradosso la non accettazione dello status di star. È come se ogni volta ci dicesse: scrivo per me, non mi importa che cosa pensiate e non vi devo giustificare niente. Che è in fin dei conti l'essenza della poesia: dire soltanto il proprio "particulare" per parlare dell'universale.