Da quando apparve, negli anni Venti del secolo scorso, la cabina per fototessere – Photomatic – ha saputo attirare l’attenzione dell’uomo della strada e dell’artista.
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Pittori, scrittori, fotografi, ideatori di installazioni e performance, nonché registi cinematografici furono da subito folgorati da questa misteriosa macchina: una sorta di sgabuzzino segreto in luogo pubblico, simile a un confessionale, all’infantile nascondiglio, al peccaminoso peep-show o a un maleodorante orinatoio (non quello duchampiano da esposizione e asettico). Come se si fosse alle prese con qualcosa di illecito o impudico, ci si cela dietro alla tendina che permette l’intimità necessaria al rituale: scegliere una faccia che il flash immobilizzerà in una serie di piccoli autoritratti non tarderà a rivelarsi un’operazione molto più complessa di quanto non sembri.